Teresa Di Giorgio
Io abitavo in Via Cupa con mio suocero Felice Carcione, un bel giorno vennero i Tedeschi e ce ne scappammo sopra la grotta “Ciarita”; il giorno mio suocero Felice diceva andiamo e così dalla grotta tornavamo a casa per prendere qualcosa anche da mangiare[1]. A casa tenevamo un piccolo locale dove io ci accendevo il fuoco e ci facevo tutte le mie faccende, quando arrivava la sera partivamo per tornare alla grotta.
Un giorno che stavo a casa, faceva abbastanza freddo ed avevo acceso il fuoco in quel piccolo locale; mio suocero venne di corsa ed entrò subito dentro, fuori si sentivano delle voci strane di persone, erano alcuni Tedeschi che volevano sparare a mio suocero Felice, arrivarono alla porta ed entrarono all’improvviso, io piano piano gli feci capire che nelle case delle persone non si entrava in questo modo, così riuscii a cacciarli.
Ricordo che una notte stavamo dormendo, ad un certo punto mi sono svegliata, vedevo fuori come se fosse giorno andai subito a prendere mia figlia Assunta che era nella culla, poi ho cercato se c’era qualcuno in casa, non c’era nessuno erano scappati tutti. Allora uscii di casa, con mia figlia in braccio ed incontrai Vincenzo Marchetti lungo Via Cupa e ci andammo a rifugiare in un fosso che stava vicino la strada e dietro alla casa di Pietro Fordellone (Via Cupa), in questo fosso quando arrivammo c’era tantissima gente.
La seconda volta che fu bombardato il campo d’Aquino era di giorno, io stavo dentro sentii dei rumori e uscii fuori e vidi degli aerei, chiamai mio suocero Felice e gli dissi questi aerei non mi sembrano italiani, dopo un po’ cominciarono a bombardare tutta la zona, anche vicino a noi, infatti morirono diversi civili tra cui: Francesco Capraro, le due figli di Annunziata Tomassi, Camilla e Luisa, Maria Carolina Carcione, Orazio Vittigli, Annunziata Tomassi perse un braccio per via di una scheggia.
Dopo tutto questo disastro, io con mio marito Antonio Carcione e mia figlia mi recai in Via Le Piante a casa di Giuseppe Mastrangeli. Qui, una sera vennero i Tedeschi e ci cacciarono, così decidemmo di andare a casa del mio compare Francesco Nardone, mio marito mi disse tu porta questa, era mia figlia Assunta, e lui portava una cesta con dentro una bottiglia di olio e un po’ di pane, ad un certo punto cominciarono a sparare e mia figlia spaventata gridava papà, papà butta quello, mio marito spaventato anche lui butto veramente tutta la cesta con tutto quello che c’era dentro.
Poi arrivammo a casa del compare Francesco e ci sistemammo in una stalla, dove c’erano anche delle vacche, a un certo punto mi sentii bagnata era il piscio delle bestie.
Quando scappammo per rifugiarci nella gratta “Ciarita”, qui c’era tantissima gente, io mi portai un materasso perché la notte non potevamo più dormire a casa, misi questo materasso a terra e pure con altre persone ci coricammo mettendoci di traverso.
Non siamo stati bene nemmeno nella grotta, così un bel giorno decidemmo di andare via, siamo partiti a piedi con poche cose direzione nord, cammina e cammina ci fermammo in un luogo, un po’ in alto dove c’erano un gruppo di case che la gente del posto chiamava “Calagliva” era colle Olivo in comune di Arce. Anche lì, un giorno arrivarono alcuni Tedeschi, la gente del posto esclamava “currat”, “currat”, volevano dire correte, correte perché volevano far fronte ai Tedeschi, li volevano uccidere, noi gli dicemmo di stare zitti; quando arrivarono entrarono nelle case, ad una persona anziana gli dettero una spinta facendolo cadere pesantemente a terra.
Una mattina molto presto era ancora buio, quando i Tedeschi dormivano ancora perché di sera bevevano molto e si ubriacavano anche, uscimmo piano piano senza farci sentire e ci avviammo per tornare verso Piedimonte; io portavo mia figlia Assunta in braccio ed ero scalza, cammina e cammina arrivammo al bivio di Aquino, qui c’erano gli Americani. Così con tantissime altre persone ci presero, ci caricarono su un camion che era piano pieno di persone, c’era un signore che si portava dietro una capra, salì sul camion con lui e stava in mezzo a noi e faceva i bisogni dappertutto.
Fu un viaggio tranquillo, andavamo verso giù, passavamo dove era passata la guerra, con questo camion arrivammo a Vairano in aperta campagna, c’era un accampamento di tende, quando arrivammo stavano finendo di sistemare queste tende, dopo ci fecero entrare e se ne andarono. A sera portarono la cena, avevano cucinato un minestrone di verza e fagioli, quando abbiamo visto quel mangiare non ci vedevamo più e così abbiamo mangiato tantissimo.
Un giorno arrivarono delle persone, non ricordo se erano militari o civili, portavano in mano dei contenitori di polvere, ci dissero che ci dovevamo spogliare, ci volevano buttare addosso quella polvere, gli dicemmo che ce la mettevamo fra di noi, così ce la lascarono e dopo eravamo diventati tutti bianchi. Dopo quel trattamento non avemmo più nessun tipo di problema. Il viaggio per Vairano fu diretto, si faceva qualche breve sosta e poi si continuava a viaggiare.
La sosta a Variano durò qualche giorno, dopo sempre con i camion ci portarono a Cosenza centro, ci fecero alloggiare in una caserma di militari, ad ogni famiglia assegnavano la loro stanza; qui siamo rimasti per un lungo periodo forse 14 o 15 mesi. In questa caserma alloggiavano una ventina di famiglie, oltre alla mia famiglia, di Piedimonte c’era la famiglia di Giuseppe Mastrangeli, qui incontrai una parente di mio marito Colomba Mastrangeli che lavorava all’ospedale, quando mi ha visto mi ha abbracciata ed ha esclamato: o Dio emia mamma! Qui mio marito andava a lavorare alla stazione di Cosenza, in questo modo potevamo mangiare, bere e vivere decentemente.
La gente del posto ci ha accolto bene, non ci davano fastidio, ognuno di noi faceva quello che poteva, per guadagnare qualche soldo per vivere.
A me mi aveva preso a ben vedere il capo di lavoro di mio marito Antonio, infatti ogni sera mi mandava sempre delle cose da mangiare. A Cosenza ci siamo trovati molto bene se fossimo rimasti lì, senza tornare a Piedimonte, credo che potevano fare una vita da signori.
Dopo si cominciò a dire che dovevamo andare via dalla caserma, così decidemmo di tornare a Piedimonte, un giorno abbiamo preso un treno merci, questo treno era molto lento, per arrivare a Piedimonte c’è voluto molto tempo. A Piedimonte, con mio marito e mia figlia Assunta siamo tornati nel 1945, crede che era il mese di giugno-luglio, perché io ero incinta delle due mie figlie gemelle Anna e Maria che sono nate ad agosto di quell’anno.
A Piedimonte quando siamo tornati non c’era nulla, le case erano quasi tutte diroccate, si vedeva un aria di desolazione, c’erano comunque delle persone, ci sistemammo nella nostra casa di Via Cupa che era mezza diroccata.
[1] Teresa Di Giorgio, nata a Piedimonte San Germano il 23/12/1916